Lo scorso 27 Gennaio, come noto, si è celebrata la Giornata della Memoria in ricordo delle innumerevoli vittime della Shoah. Non poteva dunque esser scelto giorno migliore per riproporre la tradizionale "marcia della pace", organizzata dall'Azione Cattolica nella città di Conversano. Nonostante il freddo e le condizioni climatiche avverse, i bambini dell'ACR provenienti da tutti i paesi della nostra diocesi hanno sfilato lungo le vie della città fino al Palazzetto Pineta tra canti e sventolio di bandiere e striscioni. L'evento, introdotto da S.E. Mons. Domenico Padovano, chiude il tradizionale "mese della pace", periodo nel quale l'ACR si impegna nel sostenere un progetto benefico internazionale: quest'anno l'attenzione è stata rivolta ai bambini di strada della città di Alessandria d'Egitto, vittime di abusi e di una forte mancanza di gesti d'affetto, in collaborazione con la comunità dei Gesuiti.
martedì 29 gennaio 2013
domenica 27 gennaio 2013
La Giornata della Memoria
Oggi, 27 Gennaio, ricorre la Giornata della Memoria. In questo giorno l'uomo deve ricordare il massacro compiuto su milioni di persone: un massacro, un olocausto causato da discriminazione, odio xenofobo e delirio di onnipotenza. E dobbiamo ricordare tutto questo per impedire che un simile orrore si ripeta nel futuro anche perchè, purtroppo, ancora oggi ci sono spinte razziste preoccupanti: odi che sembrano voler spingere per un ritorno all'età del nazismo e del fascismo.
Brzezinka, 7 giugno 1979
1. “...Questa è la vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede” (1Gv 5,4).
Queste parole della Lettera di San Giovanni mi vengono alla mente e mi penetrano nel cuore, quando mi trovo in questo posto in cui si è compiuta una particolare vittoria per la fede. Per la fede che fa nascere l’amore di Dio e del prossimo, l’unico amore, l’amore supremo che è pronto a “dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13; cf.Gv 10,11). Una vittoria, dunque, per l’amore, che la fede ha vivificato fino agli estremi dell’ultima e definitiva testimonianza. Questa vittoria per la fede e per l’amore l’ha riportata in questo luogo un uomo, il cui nome è Massimiliano Maria, il cognome: Kolbe; di professione (come si scriveva di lui nei registri del campo di concentramento): sacerdote cattolico; di vocazione: figlio di San Francesco; di nascita: figlio di semplici, laboriosi e devoti genitori, tessitori nei pressi di Lodz; per grazia di Dio e per giudizio della Chiesa: beato.
La vittoria mediante la fede e l’amore l’ha riportata quell’uomo in questo luogo, che fu costruito per la negazione della fede – della fede in Dio e della fede nell’uomo – e per calpestare radicalmente non soltanto l’amore, ma tutti i segni della dignità umana, dell’umanità. Un luogo, che fu costruito sull’odio e sul disprezzo dell’uomo nel nome di una ideologia folle. Un luogo, che fu costruito sulla crudeltà. Ad esso conduce una porta, ancor oggi esistente, sulla quale è posta una iscrizione: “Arbeit Macht frei”, che ha un suono sardonico, perché il suo contenuto era radicalmente contraddetto da quanto avveniva qua dentro.
In questo luogo del terribile eccidio, che recò la morte a quattro milioni di uomini di diverse nazioni, Padre Massimiliano, offrendo volontariamente se stesso alla morte nel bunker della fame per un fratello, riportò una vittoria spirituale simile a quella di Cristo stesso. Questo fratello vive ancor oggi sulla terra polacca.
Ma Padre Massimiliano Kolbe fu l’unico? Egli, certo, riportò una vittoria che risentirono subito i compagni di prigionia e che risentono ancor oggi la Chiesa e il mondo. Sicuramente, però, molte altre simili vittorie sono state riportate; penso, ad esempio, alla morte nel forno crematorio di un campo di concentramento della Carmelitana suor Benedetta della Croce, al mondo Edith Stein, illustre allieva di Husserl, che è diventata ornamento della filosofia tedesca contemporanea, e che discendeva da una famiglia ebrea abitante a Wroclaw.Sul posto ove è stata calpestata in modo così orrendo la dignità dell’uomo, la vittoria riportata mediante la fede è l’amore!
Può ancora meravigliarsi qualcuno che il Papa, nato ed educato in questa terra, il Papa che è venuto alla Sede di San Pietro dalla diocesi sul cui territorio si trova il campo di Oswiecim, abbia iniziato la sua prima Enciclica con le parole Redemptor Hominis e che l’abbia dedicata nell’insieme alla causa dell’uomo, alla dignità dell’uomo, alle minacce contro di lui e infine ai suoi diritti inalienabili che così facilmente possono essere calpestati ed annientati dai suoi simili? Basta rivestire l’uomo di una divisa diversa, armarlo dell’apparato della violenza, basta imporgli l’ideologia nella quale i diritti dell’uomo sono sottomessi alle esigenze del sistema, completamente sottomessi, così da non esistere di fatto?...
2.Vengo qui oggi come pellegrino. Si sa che molte volte mi sono trovato qui... Quante volte! E molte volte sono sceso nella cella della morte di Massimiliano Kolbe e mi sono fermato davanti al muro dello sterminio e sono passato tra le macerie dei forni crematori di Brzezinka. Non potevo non venire qui come Papa.
Vengo dunque in questo particolare santuario, nel quale è nato – posso dire – il patrono del nostro difficile secolo, così come nove secoli fa nacque sotto la spada in Rupella San Stanislao, Patrono dei Polacchi.
Vengo per pregare insieme con voi tutti che oggi siete venuti qui – e insieme con tutta la Polonia – e insieme con tutta l’Europa. Cristo vuole che io, divenuto il Successore di Pietro, renda testimonianza davanti al mondo di ciò che costituisce la grandezza dell’uomo dei nostri tempi e la sua miseria. Di quel che è la sua sconfitta e la sua vittoria.
Vengo allora e mi inginocchio su questo Golgota del mondo contemporaneo, su queste tombe, in gran parte senza nome, come la grande tomba del Milite Ignoto. Mi inginocchio davanti a tutte le lapidi che si susseguono e sulle quali è incisa la commemorazione delle vittime di Oswiecim nelle seguenti lingue: Polacco, Inglese, Bulgaro, Zingaro, Ceco, Danese, Francese, Greco, Ebraico, Yiddish, Spagnolo, Fiammingo, Serbo-Croato, Tedesco, Norvegese, Russo, Rumeno, Ungherese, Italiano.
In particolare mi soffermo insieme con voi, cari partecipanti a questo incontro, davanti alla lapide con l’iscrizione in lingua ebraica. Questa iscrizione suscita il ricordo del Popolo, i cui figli e figlie erano destinati allo sterminio totale. Questo Popolo ha la sua origine da Abramo, che è padre della nostra fede (cf. Rm 4,12), come si è espresso Paolo di Tarso. Proprio questo popolo, che ha ricevuto da Dio il comandamento: “non uccidere”, ha provato su se stesso in misura particolare che cosa significa uccidere. Davanti a questa lapide non è lecito a nessuno di passare oltre con indifferenza.
Ancora davanti ad un’altra lapide scelgo di soffermarmi: quella in lingua russa. Non aggiungo alcun commento. Sappiamo di quale nazione parla. Conosciamo quale è stata la parte avuta da questa nazione nell’ultima terribile guerra per la libertà dei popoli. Davanti a questa lapide non si può passare indifferenti.
Infine l’ultima lapide: quella in lingua polacca. Sono sei milioni di Polacchi che hanno perso la vita durante la seconda guerra mondiale: la quinta parte della nazione. Ancora una tappa delle lotte secolari di questa nazione, della mia nazione, per i suoi diritti fondamentali fra i popoli dell’Europa. Ancora un alto grido per il diritto ad un suo proprio posto sulla carta dell’Europa. Ancora un doloroso conto con la coscienza dell’umanità. Ho scelto soltanto tre lapidi. Bisognerebbe fermarsi ad ognuna di quelle esistenti, e così faremo.
3. Oswiecim è un tale conto. Non lo si può soltanto visitare. Bisogna in questa occasione pensare con paura dove si trovano le frontiere dell’odio, le frontiere della distruzione dell’uomo, le frontiere della crudeltà.
Oswiecim è una testimonianza della guerra. La guerra porta con sé una sproporzionata crescita dell’odio, della distruzione, della crudeltà. E se non si può negare che essa manifesta anche nuove possibilità del coraggio umano, dell’eroismo, del patriottismo, rimane tuttavia il fatto che in essa prevale il conto delle perdite. Prevale sempre di più, perché ogni giorno cresce la capacità distruttiva delle armi inventate dalla tecnica moderna. Delle guerre sono responsabili non solo quanti le procurano direttamente, ma anche coloro che non fanno tutto il possibile per impedirle. E perciò mi sia permesso di ripetere in questo luogo le parole che Paolo VI pronunciò davanti all’Organizzazione delle Nazioni Unite: “Basta ricordare che il sangue di milioni di uomini e innumerevoli ed inaudite sofferenze, inutili stragi e formidabili rovine sanciscono il patto che vi unisce, con un giuramento che deve cambiare la storia futura del mondo: non più la guerra, non più la guerra! La pace, la pace deve guidare le sorti dei Popoli e dell’intera umanità!” (Paolo VI, Allocutio in Consilio Nationum Unitarum: AAS 57 [1965] 881).
Se comunque questa grande chiamata di Oswiecim, il grido dell’uomo qui martoriato deve portare frutti per l’Europa (e anche per il mondo), bisogna trarre tutte le giuste conseguenze dalla “Dichiarazione dei Diritti dell’uomo”, come esortava a fare Giovanni XXIII nell’enciclica Pacem in Terris. In essa infatti viene “riconosciuta, nella forma più solenne, la dignità di persona a tutti gli esseri umani; e viene di conseguenza proclamato come loro fondamentale diritto quello di muoversi liberamente nella ricerca del vero, nell’attuazione del bene morale e della giustizia; e il diritto a una vita dignitosa; e vengono pure proclamati altri diritti connessi con quelli accennati” (Giovanni XXIII, Pacem in Terris, IV: AAS 55 [1963] 295-296).
Bisogna ritornare alla sapienza del vecchio maestro Pawel Wlodkowic, Rettore dell’Università Jagellonica a Cracovia, ed assicurare i diritti delle nazioni: all’esistenza, alla libertà, all’indipendenza, alla propria cultura, all’onesto sviluppo.
Scrive Wlodkowic: “Dove opera più il potere che l’amore, si cercano i propri interessi e non quelli di Gesù Cristo, quindi ci si allontana facilmente dalla norma della legge divina... Ogni diritto si oppone a chi minaccia quanti vogliono vivere in pace: vi si oppone il diritto civile... e canonico..., il diritto naturale, cioè il principio: “Quello che vuoi per te, fallo all’altro”. Si oppone il diritto divino, in quanto... nell’enunciato “Non rubare” viene proibita ogni rapina e nell’enunciato “Non uccidere” ogni violenza” (Pawel Wlodkowic, Saeventibus 1415, Tract. II, Solutio quaest. 4ª; cf. L. Ehrlich, Pisma Wybrane Pawla Wlodkowica, Warszawa 1968, t. 1, s. 61; 58-59).
E non soltanto il diritto vi si oppone, ma anche e, soprattutto, l’amore. Quell’amore del prossimo nel quale si manifesta e si traduce l’amore di Dio che il Cristo ha proclamato come il suo comandamento. Ma è anche il comandamento che ogni uomo porta scritto nel suo cuore, scolpito dal suo stesso Creatore. Tale comandamento si concreta anche nel “rispetto dell’altro”, della sua personalità, della sua coscienza; si concreta nel “dialogo con l’altro”, nel saper ricercare e riconoscere quanto di buono e di positivo può esserci anche in chi ha idee diverse dalle nostre, anche in chi, in buona fede, sinceramente erra.
Mai l’uno a spese dell’altro, a prezzo dell’asservimento dell’altro, a prezzo della conquista, dell’oltraggio, dello sfruttamento e della morte!
Pronuncia queste parole il successore di Giovanni XXIII e di Paolo VI. Ma le pronuncia contemporaneamente il figlio della Nazione che nella sua storia remota e più recente ha subìto dagli altri un molteplice travaglio. E non lo dice per accusare, ma per ricordare. Parla a nome di tutte le Nazioni, i cui diritti vengono violati e dimenticati. Lo dice perché a ciò lo sollecitano la verità e la sollecitudine per l’uomo.
4. Santo Dio, Santo Potente, Santo e immortale!
Dalla pestilenza, dalla fame, dal fuoco e dalla guerra... e dalla guerra, liberaci, o Signore.
Amen.
SANTA MESSA PRESSO IL CAMPO DI CONCENTRAMENTO DI BRZEZINKA
OMELIA DI SUA SANTITÀ GIOVANNI PAOLO II
OMELIA DI SUA SANTITÀ GIOVANNI PAOLO II
Brzezinka, 7 giugno 1979
1. “...Questa è la vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede” (1Gv 5,4).
Queste parole della Lettera di San Giovanni mi vengono alla mente e mi penetrano nel cuore, quando mi trovo in questo posto in cui si è compiuta una particolare vittoria per la fede. Per la fede che fa nascere l’amore di Dio e del prossimo, l’unico amore, l’amore supremo che è pronto a “dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13; cf.Gv 10,11). Una vittoria, dunque, per l’amore, che la fede ha vivificato fino agli estremi dell’ultima e definitiva testimonianza. Questa vittoria per la fede e per l’amore l’ha riportata in questo luogo un uomo, il cui nome è Massimiliano Maria, il cognome: Kolbe; di professione (come si scriveva di lui nei registri del campo di concentramento): sacerdote cattolico; di vocazione: figlio di San Francesco; di nascita: figlio di semplici, laboriosi e devoti genitori, tessitori nei pressi di Lodz; per grazia di Dio e per giudizio della Chiesa: beato.
La vittoria mediante la fede e l’amore l’ha riportata quell’uomo in questo luogo, che fu costruito per la negazione della fede – della fede in Dio e della fede nell’uomo – e per calpestare radicalmente non soltanto l’amore, ma tutti i segni della dignità umana, dell’umanità. Un luogo, che fu costruito sull’odio e sul disprezzo dell’uomo nel nome di una ideologia folle. Un luogo, che fu costruito sulla crudeltà. Ad esso conduce una porta, ancor oggi esistente, sulla quale è posta una iscrizione: “Arbeit Macht frei”, che ha un suono sardonico, perché il suo contenuto era radicalmente contraddetto da quanto avveniva qua dentro.
In questo luogo del terribile eccidio, che recò la morte a quattro milioni di uomini di diverse nazioni, Padre Massimiliano, offrendo volontariamente se stesso alla morte nel bunker della fame per un fratello, riportò una vittoria spirituale simile a quella di Cristo stesso. Questo fratello vive ancor oggi sulla terra polacca.
Ma Padre Massimiliano Kolbe fu l’unico? Egli, certo, riportò una vittoria che risentirono subito i compagni di prigionia e che risentono ancor oggi la Chiesa e il mondo. Sicuramente, però, molte altre simili vittorie sono state riportate; penso, ad esempio, alla morte nel forno crematorio di un campo di concentramento della Carmelitana suor Benedetta della Croce, al mondo Edith Stein, illustre allieva di Husserl, che è diventata ornamento della filosofia tedesca contemporanea, e che discendeva da una famiglia ebrea abitante a Wroclaw.Sul posto ove è stata calpestata in modo così orrendo la dignità dell’uomo, la vittoria riportata mediante la fede è l’amore!
Può ancora meravigliarsi qualcuno che il Papa, nato ed educato in questa terra, il Papa che è venuto alla Sede di San Pietro dalla diocesi sul cui territorio si trova il campo di Oswiecim, abbia iniziato la sua prima Enciclica con le parole Redemptor Hominis e che l’abbia dedicata nell’insieme alla causa dell’uomo, alla dignità dell’uomo, alle minacce contro di lui e infine ai suoi diritti inalienabili che così facilmente possono essere calpestati ed annientati dai suoi simili? Basta rivestire l’uomo di una divisa diversa, armarlo dell’apparato della violenza, basta imporgli l’ideologia nella quale i diritti dell’uomo sono sottomessi alle esigenze del sistema, completamente sottomessi, così da non esistere di fatto?...
2.Vengo qui oggi come pellegrino. Si sa che molte volte mi sono trovato qui... Quante volte! E molte volte sono sceso nella cella della morte di Massimiliano Kolbe e mi sono fermato davanti al muro dello sterminio e sono passato tra le macerie dei forni crematori di Brzezinka. Non potevo non venire qui come Papa.
Vengo dunque in questo particolare santuario, nel quale è nato – posso dire – il patrono del nostro difficile secolo, così come nove secoli fa nacque sotto la spada in Rupella San Stanislao, Patrono dei Polacchi.
Vengo per pregare insieme con voi tutti che oggi siete venuti qui – e insieme con tutta la Polonia – e insieme con tutta l’Europa. Cristo vuole che io, divenuto il Successore di Pietro, renda testimonianza davanti al mondo di ciò che costituisce la grandezza dell’uomo dei nostri tempi e la sua miseria. Di quel che è la sua sconfitta e la sua vittoria.
Vengo allora e mi inginocchio su questo Golgota del mondo contemporaneo, su queste tombe, in gran parte senza nome, come la grande tomba del Milite Ignoto. Mi inginocchio davanti a tutte le lapidi che si susseguono e sulle quali è incisa la commemorazione delle vittime di Oswiecim nelle seguenti lingue: Polacco, Inglese, Bulgaro, Zingaro, Ceco, Danese, Francese, Greco, Ebraico, Yiddish, Spagnolo, Fiammingo, Serbo-Croato, Tedesco, Norvegese, Russo, Rumeno, Ungherese, Italiano.
In particolare mi soffermo insieme con voi, cari partecipanti a questo incontro, davanti alla lapide con l’iscrizione in lingua ebraica. Questa iscrizione suscita il ricordo del Popolo, i cui figli e figlie erano destinati allo sterminio totale. Questo Popolo ha la sua origine da Abramo, che è padre della nostra fede (cf. Rm 4,12), come si è espresso Paolo di Tarso. Proprio questo popolo, che ha ricevuto da Dio il comandamento: “non uccidere”, ha provato su se stesso in misura particolare che cosa significa uccidere. Davanti a questa lapide non è lecito a nessuno di passare oltre con indifferenza.
Ancora davanti ad un’altra lapide scelgo di soffermarmi: quella in lingua russa. Non aggiungo alcun commento. Sappiamo di quale nazione parla. Conosciamo quale è stata la parte avuta da questa nazione nell’ultima terribile guerra per la libertà dei popoli. Davanti a questa lapide non si può passare indifferenti.
Infine l’ultima lapide: quella in lingua polacca. Sono sei milioni di Polacchi che hanno perso la vita durante la seconda guerra mondiale: la quinta parte della nazione. Ancora una tappa delle lotte secolari di questa nazione, della mia nazione, per i suoi diritti fondamentali fra i popoli dell’Europa. Ancora un alto grido per il diritto ad un suo proprio posto sulla carta dell’Europa. Ancora un doloroso conto con la coscienza dell’umanità. Ho scelto soltanto tre lapidi. Bisognerebbe fermarsi ad ognuna di quelle esistenti, e così faremo.
3. Oswiecim è un tale conto. Non lo si può soltanto visitare. Bisogna in questa occasione pensare con paura dove si trovano le frontiere dell’odio, le frontiere della distruzione dell’uomo, le frontiere della crudeltà.
Oswiecim è una testimonianza della guerra. La guerra porta con sé una sproporzionata crescita dell’odio, della distruzione, della crudeltà. E se non si può negare che essa manifesta anche nuove possibilità del coraggio umano, dell’eroismo, del patriottismo, rimane tuttavia il fatto che in essa prevale il conto delle perdite. Prevale sempre di più, perché ogni giorno cresce la capacità distruttiva delle armi inventate dalla tecnica moderna. Delle guerre sono responsabili non solo quanti le procurano direttamente, ma anche coloro che non fanno tutto il possibile per impedirle. E perciò mi sia permesso di ripetere in questo luogo le parole che Paolo VI pronunciò davanti all’Organizzazione delle Nazioni Unite: “Basta ricordare che il sangue di milioni di uomini e innumerevoli ed inaudite sofferenze, inutili stragi e formidabili rovine sanciscono il patto che vi unisce, con un giuramento che deve cambiare la storia futura del mondo: non più la guerra, non più la guerra! La pace, la pace deve guidare le sorti dei Popoli e dell’intera umanità!” (Paolo VI, Allocutio in Consilio Nationum Unitarum: AAS 57 [1965] 881).
Se comunque questa grande chiamata di Oswiecim, il grido dell’uomo qui martoriato deve portare frutti per l’Europa (e anche per il mondo), bisogna trarre tutte le giuste conseguenze dalla “Dichiarazione dei Diritti dell’uomo”, come esortava a fare Giovanni XXIII nell’enciclica Pacem in Terris. In essa infatti viene “riconosciuta, nella forma più solenne, la dignità di persona a tutti gli esseri umani; e viene di conseguenza proclamato come loro fondamentale diritto quello di muoversi liberamente nella ricerca del vero, nell’attuazione del bene morale e della giustizia; e il diritto a una vita dignitosa; e vengono pure proclamati altri diritti connessi con quelli accennati” (Giovanni XXIII, Pacem in Terris, IV: AAS 55 [1963] 295-296).
Bisogna ritornare alla sapienza del vecchio maestro Pawel Wlodkowic, Rettore dell’Università Jagellonica a Cracovia, ed assicurare i diritti delle nazioni: all’esistenza, alla libertà, all’indipendenza, alla propria cultura, all’onesto sviluppo.
Scrive Wlodkowic: “Dove opera più il potere che l’amore, si cercano i propri interessi e non quelli di Gesù Cristo, quindi ci si allontana facilmente dalla norma della legge divina... Ogni diritto si oppone a chi minaccia quanti vogliono vivere in pace: vi si oppone il diritto civile... e canonico..., il diritto naturale, cioè il principio: “Quello che vuoi per te, fallo all’altro”. Si oppone il diritto divino, in quanto... nell’enunciato “Non rubare” viene proibita ogni rapina e nell’enunciato “Non uccidere” ogni violenza” (Pawel Wlodkowic, Saeventibus 1415, Tract. II, Solutio quaest. 4ª; cf. L. Ehrlich, Pisma Wybrane Pawla Wlodkowica, Warszawa 1968, t. 1, s. 61; 58-59).
E non soltanto il diritto vi si oppone, ma anche e, soprattutto, l’amore. Quell’amore del prossimo nel quale si manifesta e si traduce l’amore di Dio che il Cristo ha proclamato come il suo comandamento. Ma è anche il comandamento che ogni uomo porta scritto nel suo cuore, scolpito dal suo stesso Creatore. Tale comandamento si concreta anche nel “rispetto dell’altro”, della sua personalità, della sua coscienza; si concreta nel “dialogo con l’altro”, nel saper ricercare e riconoscere quanto di buono e di positivo può esserci anche in chi ha idee diverse dalle nostre, anche in chi, in buona fede, sinceramente erra.
Mai l’uno a spese dell’altro, a prezzo dell’asservimento dell’altro, a prezzo della conquista, dell’oltraggio, dello sfruttamento e della morte!
Pronuncia queste parole il successore di Giovanni XXIII e di Paolo VI. Ma le pronuncia contemporaneamente il figlio della Nazione che nella sua storia remota e più recente ha subìto dagli altri un molteplice travaglio. E non lo dice per accusare, ma per ricordare. Parla a nome di tutte le Nazioni, i cui diritti vengono violati e dimenticati. Lo dice perché a ciò lo sollecitano la verità e la sollecitudine per l’uomo.
4. Santo Dio, Santo Potente, Santo e immortale!
Dalla pestilenza, dalla fame, dal fuoco e dalla guerra... e dalla guerra, liberaci, o Signore.
Amen.
mercoledì 23 gennaio 2013
Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani 2013
Siamo nel pieno della settimana di preghiera per l'unità dei cristiani (termina il 25 Gennaio) e cerchiamo di scoprire ciò che si cela dietro quest'iniziativa:
Quest’anno la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani ci invita a riflettere sull’importantissimo e ben noto testo del profeta Michea: “Quale offerta porteremo al Signore, al Dio Altissimo, quando andremo ad adorarlo? Gradirà il Signore migliaia di montoni e torrenti di olio? Gli daremo in sacrificio i nostri figli, i nostri primogeniti per ricevere il perdono dei nostri peccati? In realtà il Signore ha insegnato agli uomini quel che è bene quel che esige da noi: praticare la giustizia, ricercare la bontà e vivere con umiltà davanti al nostro Dio” (6, 6-8).
Il libro del profeta Michea esorta il popolo a camminare in pellegrinaggio: “Saliamo sulla montagna del Signore, ed Egli ci insegnerà quel che dobbiamo fare e noi impareremo come comportarci” (4, 2). Di grande rilievo, dunque, è la sua chiamata: “camminare in questo pellegrinaggio, a condividere nella giustizia e nella pace, ove troviamo la vera salvezza”.
È verità indiscutibile che la giustizia e la pace - ricorda il profeta Michea -, costituiscono una forte e salda alleanza fra Dio e l’umanità, attraverso cui si crea una società costruita sulla dignità, sull’uguaglianza, sulla fraternità e sul reciproco “svuotamento" (kenosis) delle passioni.
È poi incontestabile che la vera fede in Dio è inseparabile dalla santità personale, come anche dalla ricerca della giustizia sociale.
Al tempo della predicazione del profeta Michea il popolo di Dio doveva affrontare l’oppressione e l’ingiustizia di coloro che intendevano negare la dignità e i diritti dei poveri.
Lo sfruttamento dei poveri era - ed è - un fatto reale: “Voi divorate il mio popolo. Lo spellate, gli rompete le ossa”, dice il profeta (3, 3). In modo simile, oggi, il sistema delle caste, con il razzismo e il nazionalismo, pone severe sfide alla pace dei popoli, e in tanti paesi; altre caste, con diversi nomi, negano l’importanza del dialogo e della conversazione, la libertà nel parlare e nell’ascoltare. A
motivo di questo sistema delle caste, i Dalits, nella cultura indiana, “sono socialmente emarginati, politicamente sotto-rappresentati, sfruttati economicamente e soggiogati culturalmente”.
Noi, come seguaci del “Dio della vita e della pace”, del “Sole della giustizia”, secondo l’Innologia dell’Oriente Ortodosso, dobbiamo camminare nel sentiero della giustizia, della misericordia e dell’umiltà, realtà e tema di eccellente significato e di attualità che saranno sviluppati con dinamismo dalla X Assemblea generale del Consiglio Ecumenico delle Chiese, in programma nel 2013 a Busan, nella Corea del Sud.
“Dio della vita, guidaci verso la giustizia e la pace” è il tema dell’Assemblea, e risuonerà come un forte appello a tutti i popoli a camminare insieme, comunitariamente, nel sentiero della giustizia che conduce alla vita e alla salvezza. Dunque, la nostra salvezza dalla schiavitù e dall’umiliazione quotidiana più che semplicemente con riti solo formali, sacrifici e offerte (Mic 6, 7), richiede da noi il “praticare la giustizia, ricercare la bontà e vivere con umiltà davanti al nostro Dio” (6, 8). Con chiarezza il profeta Michea mette in evidenza, da una parte, il rigetto dei rituali e dei sacrifici impoveriti dalla mancanza del senso della misericordia, dell’umiltà e della giustizia, e dall’altra dimostra l’aspettativa di Dio che la giustizia debba essere al cuore della nostra religione e dei nostri riti. È la volontà di Dio, il suo desiderio di procedere nel sentiero della giustizia e della pace, facendo quel che Dio esige da noi. Giovanni Paolo II ha affermato che “qualsiasi espressione di pregiudizio, basata sulle caste, in relazione ai cristiani, è una contro-testimonianza dell’autentica solidarietà umana, una minaccia alla genuina spiritualità e un serio ostacolo alla missione di evangelizzazione
della Chiesa”. Mentre il Papa Benedetto XVI proclama così: “Anche se nel mondo il male sembra sempre prevalere sul bene”, a vincere alla fine è “l’amore e non l’odio”, perché “più forte è il Signore, il nostro vero re e sacerdote Cristo, e nonostante tutte le cose che ci fanno dubitare sull’esito positivo della storia, vince Cristo e vince il bene”, il Patriarca Ecumenico Bartolomeo I ha dichiarato con fermezza: “Promuoviamo l’universalità della carità al posto dell’odio e dell’ipocrisia, promuoviamo l’universalità della comunione e della collaborazione al posto dell’antagonismo”. In modo simile si sono pronunciati anche gli altri Capi delle diverse chiese e confessioni cristiane.
La celebrazione della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani è un vero e forte segno di amore e di speranza, di aiuto spirituale e morale, e l’unità dei cristiani sarà un dono dello Spirito Santo.
Camminare umilmente con Dio significa anzitutto camminare nella radicalità della Fede, come il nostro padre Abramo, camminare in solidarietà con coloro che lottano per la giustizia e la pace, e condividere la sofferenza di tutti, attraverso l’attenzione, la cura e il sostegno verso i bisognosi, i poveri e gli emarginati. Infatti, camminare con Dio significa camminare oltre le barriere, oltre l’odio, il razzismo e il nazionalismo che dividono e danneggiano i membri della Chiesa di Cristo. San Paolo afferma: “Con il battesimo, infatti siete stati uniti a Cristo e siete stati rivestiti di Lui come di un abito nuovo. Non ha più alcuna importanza l’essere Ebreo o pagano, schiavo o libero, uomo o donna, perché uniti a Gesù Cristo, tutti voi siete diventati un solo uomo” (Gal 3, 28).
Ogni uomo è “icona di Dio”, secondo la dottrina dei Santi Padri Greci della Cappadocia, e, conseguentemente, incontrandolo nella strada, incontriamo Cristo, e, servendolo, serviamo lui, che “infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10, 45).
Amore e giustizia si incontrano e conducono alla salvezza, hanno la stessa origine e conducono alla vita eterna. Il monaco Efrem di Siro, grande asceta dell’Oriente Ortodosso ed eccellente scrittore di
preghiere mistiche, sottolinea: “Se amerai la pace trapasserai il grande mare della vita con serenità. Se amerai la giustizia troverai la vita eterna”, prospettiva che ci fa comprendere che la pace e l’unità sono piene solo se si fondano nella giustizia: “Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati” (Mt 5, 6).
Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia e di Malta
ed Esarcato per l’Europa Meridionale
✠ Metropolita Gennadios
Arcivescovo Ortodosso d’Italia e di Malta
ed Esarca per l’Europa Meridionale
Quest’anno la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani ci invita a riflettere sull’importantissimo e ben noto testo del profeta Michea: “Quale offerta porteremo al Signore, al Dio Altissimo, quando andremo ad adorarlo? Gradirà il Signore migliaia di montoni e torrenti di olio? Gli daremo in sacrificio i nostri figli, i nostri primogeniti per ricevere il perdono dei nostri peccati? In realtà il Signore ha insegnato agli uomini quel che è bene quel che esige da noi: praticare la giustizia, ricercare la bontà e vivere con umiltà davanti al nostro Dio” (6, 6-8).
Il libro del profeta Michea esorta il popolo a camminare in pellegrinaggio: “Saliamo sulla montagna del Signore, ed Egli ci insegnerà quel che dobbiamo fare e noi impareremo come comportarci” (4, 2). Di grande rilievo, dunque, è la sua chiamata: “camminare in questo pellegrinaggio, a condividere nella giustizia e nella pace, ove troviamo la vera salvezza”.
È verità indiscutibile che la giustizia e la pace - ricorda il profeta Michea -, costituiscono una forte e salda alleanza fra Dio e l’umanità, attraverso cui si crea una società costruita sulla dignità, sull’uguaglianza, sulla fraternità e sul reciproco “svuotamento" (kenosis) delle passioni.
È poi incontestabile che la vera fede in Dio è inseparabile dalla santità personale, come anche dalla ricerca della giustizia sociale.
Al tempo della predicazione del profeta Michea il popolo di Dio doveva affrontare l’oppressione e l’ingiustizia di coloro che intendevano negare la dignità e i diritti dei poveri.
Lo sfruttamento dei poveri era - ed è - un fatto reale: “Voi divorate il mio popolo. Lo spellate, gli rompete le ossa”, dice il profeta (3, 3). In modo simile, oggi, il sistema delle caste, con il razzismo e il nazionalismo, pone severe sfide alla pace dei popoli, e in tanti paesi; altre caste, con diversi nomi, negano l’importanza del dialogo e della conversazione, la libertà nel parlare e nell’ascoltare. A
motivo di questo sistema delle caste, i Dalits, nella cultura indiana, “sono socialmente emarginati, politicamente sotto-rappresentati, sfruttati economicamente e soggiogati culturalmente”.
Noi, come seguaci del “Dio della vita e della pace”, del “Sole della giustizia”, secondo l’Innologia dell’Oriente Ortodosso, dobbiamo camminare nel sentiero della giustizia, della misericordia e dell’umiltà, realtà e tema di eccellente significato e di attualità che saranno sviluppati con dinamismo dalla X Assemblea generale del Consiglio Ecumenico delle Chiese, in programma nel 2013 a Busan, nella Corea del Sud.
“Dio della vita, guidaci verso la giustizia e la pace” è il tema dell’Assemblea, e risuonerà come un forte appello a tutti i popoli a camminare insieme, comunitariamente, nel sentiero della giustizia che conduce alla vita e alla salvezza. Dunque, la nostra salvezza dalla schiavitù e dall’umiliazione quotidiana più che semplicemente con riti solo formali, sacrifici e offerte (Mic 6, 7), richiede da noi il “praticare la giustizia, ricercare la bontà e vivere con umiltà davanti al nostro Dio” (6, 8). Con chiarezza il profeta Michea mette in evidenza, da una parte, il rigetto dei rituali e dei sacrifici impoveriti dalla mancanza del senso della misericordia, dell’umiltà e della giustizia, e dall’altra dimostra l’aspettativa di Dio che la giustizia debba essere al cuore della nostra religione e dei nostri riti. È la volontà di Dio, il suo desiderio di procedere nel sentiero della giustizia e della pace, facendo quel che Dio esige da noi. Giovanni Paolo II ha affermato che “qualsiasi espressione di pregiudizio, basata sulle caste, in relazione ai cristiani, è una contro-testimonianza dell’autentica solidarietà umana, una minaccia alla genuina spiritualità e un serio ostacolo alla missione di evangelizzazione
della Chiesa”. Mentre il Papa Benedetto XVI proclama così: “Anche se nel mondo il male sembra sempre prevalere sul bene”, a vincere alla fine è “l’amore e non l’odio”, perché “più forte è il Signore, il nostro vero re e sacerdote Cristo, e nonostante tutte le cose che ci fanno dubitare sull’esito positivo della storia, vince Cristo e vince il bene”, il Patriarca Ecumenico Bartolomeo I ha dichiarato con fermezza: “Promuoviamo l’universalità della carità al posto dell’odio e dell’ipocrisia, promuoviamo l’universalità della comunione e della collaborazione al posto dell’antagonismo”. In modo simile si sono pronunciati anche gli altri Capi delle diverse chiese e confessioni cristiane.
La celebrazione della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani è un vero e forte segno di amore e di speranza, di aiuto spirituale e morale, e l’unità dei cristiani sarà un dono dello Spirito Santo.
Camminare umilmente con Dio significa anzitutto camminare nella radicalità della Fede, come il nostro padre Abramo, camminare in solidarietà con coloro che lottano per la giustizia e la pace, e condividere la sofferenza di tutti, attraverso l’attenzione, la cura e il sostegno verso i bisognosi, i poveri e gli emarginati. Infatti, camminare con Dio significa camminare oltre le barriere, oltre l’odio, il razzismo e il nazionalismo che dividono e danneggiano i membri della Chiesa di Cristo. San Paolo afferma: “Con il battesimo, infatti siete stati uniti a Cristo e siete stati rivestiti di Lui come di un abito nuovo. Non ha più alcuna importanza l’essere Ebreo o pagano, schiavo o libero, uomo o donna, perché uniti a Gesù Cristo, tutti voi siete diventati un solo uomo” (Gal 3, 28).
Ogni uomo è “icona di Dio”, secondo la dottrina dei Santi Padri Greci della Cappadocia, e, conseguentemente, incontrandolo nella strada, incontriamo Cristo, e, servendolo, serviamo lui, che “infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10, 45).
Amore e giustizia si incontrano e conducono alla salvezza, hanno la stessa origine e conducono alla vita eterna. Il monaco Efrem di Siro, grande asceta dell’Oriente Ortodosso ed eccellente scrittore di
preghiere mistiche, sottolinea: “Se amerai la pace trapasserai il grande mare della vita con serenità. Se amerai la giustizia troverai la vita eterna”, prospettiva che ci fa comprendere che la pace e l’unità sono piene solo se si fondano nella giustizia: “Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati” (Mt 5, 6).
Chiesa Cattolica
✠ Mansueto Bianchi
Vescovo di Pistoia
Presidente, Commissione Episcopale per l’Ecumenismo e il Dialogo della CEI
Federazione delle Chiese Evangeliche
✠ Mansueto Bianchi
Vescovo di Pistoia
Presidente, Commissione Episcopale per l’Ecumenismo e il Dialogo della CEI
Federazione delle Chiese Evangeliche
Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia
Pastore Massimo Aquilante
Presidente
Pastore Massimo Aquilante
Presidente
Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia e di Malta
ed Esarcato per l’Europa Meridionale
✠ Metropolita Gennadios
Arcivescovo Ortodosso d’Italia e di Malta
ed Esarca per l’Europa Meridionale
giovedì 17 gennaio 2013
La Sacra Scrittura nella vita della Chiesa
Il prossimo 22 Gennaio 2013, alle ore 19.00, la nostra sala parrocchiale ospiterà un interessante incontro predisposto dai settori apostolato biblico e catecumenato ed aperto a tutti gli interessati.
E’un’occasione importante, presieduta dal nostro Vescovo S.E. Mons.Domenico Padovano, in cui si procederà alla rilettura della Costituzione Dogmatica sulla Divina Rivelazione "Dei Verbum", nel cinquantesimo anniversario del Concilio Vaticano II.
Nel corso dell'evento, nel quale interverrà anche l'Arcivescovo emerito di Taranto S.E. Mons. Benigno Papa, sarà inoltre presentato il
Direttorio diocesano per l’iniziazione, frutto di un’attenta consultazione tra gli Uffici diocesani, che potrà contribuire a rendere più concorde il
servizio delle parrocchie della nostra diocesi.
domenica 6 gennaio 2013
Epifania del Signore
Oggi ricorre la solennità dell'Epifania del Signore, una celebrazione posta un pò troppo in ombra dall'arrivo della longeva befana, simbolo della cultura e della mentalità consumistica del nostro tempo: "stupida questa festa, sentenziava Pier Paolo Pasolini, perché non ha più niente di cristiano, ma è carica dei vizi del consumismo".
In realtà, esattamente come accade per Babbo Natale (legato alla figura di San Nicola), anche la befana affonda le sue radici nella cristianità! E’ interessante riscoprire, infatti, che la leggenda della Befana è legata profondamente anche ai Re Magi. La storia parte nella zona di Betlemme, quando i Re Magi in viaggio trovarono una vecchia a cui chiesero informazioni, la invitarono a seguirli per portare dei doni a Gesù Bambino, ma lei rifiutò. Quando essi partirono si pentì di non aver dato loro almeno un regalo per Gesù e cominciò a girare nelle case dove c’erano bambini, lasciando dei dolci, sperando di trovare Gesù Bambino. La leggenda narra che da allora tra il 5 e il 6 gennaio la Befana continua a portare dolci ai bimbi buoni.
Ad ogni modo, la reale celebrazione di questa giornata è la prima vera manifestazione della divinità di Gesù Bambino, riconosciuta dai Re Magi grazie alla luminosa stella, guida del loro cammino nel deserto. Famiglia Cristiana ci aiuta a ricordare le origini di questa celebrazione:
"Il nome Epifania rivela l’origine orientale di questa solennità in cui, quando l’Oriente adottò il 25 dicembre per la nascita di Gesù, il tema natalizio lasciò il posto a quello della manifestazione di Cristo ai Magi per mezzo della stella, che è il tema predominante della festa, soprattutto in Occidente. Noi siamo abituati a chiamare “re” i Magi, a ritenere che fossero tre coi nomi di Melchiorre, Gaspare e Baldassarre. Nulla di tutto ciò leggiamo però nel racconto di Matteo, l’unico dei quattro Vangeli a parlare di “alcuni Magi” giunti a Gerusalemme dall’Oriente guidati da una stella, che portarono al Bambino in dono oro, incenso e mirra e che, avvertiti in sogno di non ripassare da Erode a cui avevano chiesto, appena arrivati, dove fosse il neonato re dei Giudei, se ne tornarono poi al proprio paese. Il culto dei Magi - rimasto forte per tutto l’alto Medioevo anche perché i germani convertiti al Cristianesimo, in quanto “barbari” li sentivano come loro patroni – si rafforzò a partire dai secoli VIII-X, quando la festa dell’Epifania si andò più strettamente collegando coi rituali regali e imperiali, e raggiunse l’acme nel XII secolo per volontà di Federico I Barbarossa. Secondo una tradizione del IV-VI secolo, le reliquie dei Magi erano custodite nella chiesa milanese di Sant’Eustorgio (ma nel Duecento Marco Polo ne avrebbe viste altre in una città della Persia). Comunque nel 1164, allorché Milano fu distrutta perché ribelle all’Impero, l’arcicancelliere imperiale Reinaldo di Dassel, arcivescovo di Colonia, le prelevò per portarle nella sua città, deponendole nel duomo di cui era appena stata avviata la costruzione.. Là esse riposano ancora oggi e sono state oggetto del grande pellegrinaggio dei giovani guidato, nell’estate del 2005, da Benedetto XVI. Il culto dei Magi dette luogo nel Medioevo a pellegrinaggi e a tradizioni devozionali che ancora perdurano specie nell’Europa centrale, dalla Lombardia e dalla Toscana."
In realtà, esattamente come accade per Babbo Natale (legato alla figura di San Nicola), anche la befana affonda le sue radici nella cristianità! E’ interessante riscoprire, infatti, che la leggenda della Befana è legata profondamente anche ai Re Magi. La storia parte nella zona di Betlemme, quando i Re Magi in viaggio trovarono una vecchia a cui chiesero informazioni, la invitarono a seguirli per portare dei doni a Gesù Bambino, ma lei rifiutò. Quando essi partirono si pentì di non aver dato loro almeno un regalo per Gesù e cominciò a girare nelle case dove c’erano bambini, lasciando dei dolci, sperando di trovare Gesù Bambino. La leggenda narra che da allora tra il 5 e il 6 gennaio la Befana continua a portare dolci ai bimbi buoni.
Ad ogni modo, la reale celebrazione di questa giornata è la prima vera manifestazione della divinità di Gesù Bambino, riconosciuta dai Re Magi grazie alla luminosa stella, guida del loro cammino nel deserto. Famiglia Cristiana ci aiuta a ricordare le origini di questa celebrazione:
"Il nome Epifania rivela l’origine orientale di questa solennità in cui, quando l’Oriente adottò il 25 dicembre per la nascita di Gesù, il tema natalizio lasciò il posto a quello della manifestazione di Cristo ai Magi per mezzo della stella, che è il tema predominante della festa, soprattutto in Occidente. Noi siamo abituati a chiamare “re” i Magi, a ritenere che fossero tre coi nomi di Melchiorre, Gaspare e Baldassarre. Nulla di tutto ciò leggiamo però nel racconto di Matteo, l’unico dei quattro Vangeli a parlare di “alcuni Magi” giunti a Gerusalemme dall’Oriente guidati da una stella, che portarono al Bambino in dono oro, incenso e mirra e che, avvertiti in sogno di non ripassare da Erode a cui avevano chiesto, appena arrivati, dove fosse il neonato re dei Giudei, se ne tornarono poi al proprio paese. Il culto dei Magi - rimasto forte per tutto l’alto Medioevo anche perché i germani convertiti al Cristianesimo, in quanto “barbari” li sentivano come loro patroni – si rafforzò a partire dai secoli VIII-X, quando la festa dell’Epifania si andò più strettamente collegando coi rituali regali e imperiali, e raggiunse l’acme nel XII secolo per volontà di Federico I Barbarossa. Secondo una tradizione del IV-VI secolo, le reliquie dei Magi erano custodite nella chiesa milanese di Sant’Eustorgio (ma nel Duecento Marco Polo ne avrebbe viste altre in una città della Persia). Comunque nel 1164, allorché Milano fu distrutta perché ribelle all’Impero, l’arcicancelliere imperiale Reinaldo di Dassel, arcivescovo di Colonia, le prelevò per portarle nella sua città, deponendole nel duomo di cui era appena stata avviata la costruzione.. Là esse riposano ancora oggi e sono state oggetto del grande pellegrinaggio dei giovani guidato, nell’estate del 2005, da Benedetto XVI. Il culto dei Magi dette luogo nel Medioevo a pellegrinaggi e a tradizioni devozionali che ancora perdurano specie nell’Europa centrale, dalla Lombardia e dalla Toscana."
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